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EDVARD MUNCH – Nelle viscere dell’umano: l’universale.

Edvard Munch, secondogenito della coppia di coniugi Christian e Laura Catherine Bjoistad, vide la luce il giorno 12 dicembre del 1863, nel Loten, regione della campagna norvegese nel cui stemma civico campeggiava il corno potorio in ricordo di una fiorente distilleria e della sua rinomata bevanda. L’anno prima, nel 1862, una locomotiva sferragliò sul dorso di quel distretto agricolo e sovrappose sbuffi di candida modernità al cielo cristallino di Norvegia. Attorno alla nuova fermata ferroviaria si insediò una numerosa comunità che in breve rese la regione una delle più popolose del paese.
A ottobre del 1864, la famiglia si trasferì a Kristiania (attuale Oslo) dove venne offerto al dott. Christian Munch un lavoro stabile come medico presso la fortezza di Akershuse. Poste solide basi lavorative la famiglia si allargò e vennero alla luce Peter Andreas, Laura Catherine e Inger Marie.
A pochi mesi dall’ultimo parto la madre, Laura Catherine, contrasse quella che veniva chiamata la peste bianca e morì agonizzante con il petto che si svuotava di vita. Zia Karen, alla scomparsa della sorella, assunse il governo della casa e incoraggiò il giovane Edvard a dipingere e disegnare avvertendo in lui una marcata sensibilità ed una prepotente esigenza espressiva.
La tubercolosi con il suo alone funesto tornò nove anni dopo la scomparsa della sig.ra Laura Catherine a visitare la famiglia Munch e, senza tanti convenevoli, si infiltrò nei polmoni di Sophie, sorella maggiore e prediletta dell’artista, consumandola fino alla morte. Il corpo di ragazza appena adolescente resistette con la forza della giovinezza alla malattia ma il virus non le diede tregua e le intrise i polmoni di un escreato velenoso, privandola giorno dopo giorno d’aria. Le sofferenze di Sophie suggestionarono così fortemente l’artista che il ricordo di quei momenti divennero il soggetto di molte sue opere a venire. In lui germinò fin da bambino la sindrome del sopravvissuto, il senso di colpa d’esser scampato alla morte e la lacerazione per la perdita degli affetti più cari.
Il padre, medico militare, torturato dalla tragedia delle morti e afflitto dai lutti, entrò in una profonda prostrazione, una sofferenza così acuta che spinse la sua emotività ad un coma. Vinto dalla depressione ma ancora vivo si sollevò dal pavimento del dolore e consegnò il buio della sua anima direttamente fra le braccia della fede: barattò l’angoscia con la dottrina. Dovette crederci, dovette farlo: lui doveva salvarsi. Con una volontà titanica si sforzò di raddrizzare il timone storto della sciagura e si mise all’inseguimento della buonasorte lungo le coordinate della virtù.
In casa Munch il padre orchestrava un eterno requiem affettivo e vibrava rabbioso un sottofondo di gelido autoritarismo. Costanti erano i rimproveri che rivolgeva ai suoi figli e quotidiane erano le minacce di punizioni divine. L’assenza di calore, la salute precaria e le scarse risorse economiche privarono Edvard della leggerezza e della fiducia che caratterizzano l’infanzia.
Sentiva sulla sua testa un alone di irrimedaibile condanna.
Per tutta la vita Edvard Much ebbe l’abitudine di annotare riflessioni che si rivelarono preziose per conoscere i suoi più profondi sentimenti.
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Nel 1880 si iscrisse ad un corso di pittura serale e si esercitò nella tecnica en plein air, seguendo i tratti stilistici del naturalismo tanto in voga all’epoca. Divvene sempre più abile e riversò tubetti di colore sulla tela per rappresentare i bei paesaggi scandinavi.
Nel 1889 grazie ad una borsa di studio assegnatagli dal governo norvegese andò a studiare a Parigi e lì, sulla Senna, mancò per poco la conoscenza di Van Gogh, che potè incontrare attraverso la sua opera insieme a quella di Toulouse -Lautrec e di Gauguin. Quel modo di intendere l’arte e la vita lo stravolsero al punto che ribaltò il paradigma concettuale e formale della sua pittura. Lui stesso annotò nei suoi diari “Non dipingo ciò che vedo, ma ciò che ho visto“. Fu naturale per lui riconoscersi nelle inquietudini formali del simbolismo, nelle sue cifre stilistiche e nei temi cardine di quella corrente: il suo animo tormentato si specchiò nella fascinazione per la distruzione, nella pulsione di morte e nella visione totalizzante dell’amore. L’artista negli anni a venire consolidò la sua carriera e, all’inverso, sul piano affettivo si impiombò nella cantina vuota dell’assenza. Non investiva e si limitava ad intrattenere relazioni fugaci, senza impegno emotivo. Nonostante emanasse un fascino inconsapevole si tenne sempre lontano dall’amore. Nei confronti del gentil sesso nutriva sentimenti ambivalenti e distorti, oscillava fra l’ adorazione e il timore, il dominio e il senso di colpa. Solo due donne bucarono la cortina del suo cuore; la prima, una passione di gioventù che gli offrì incontri clandestini e un amore di donna sposata che naufragò precocemente lasciandogli sul fegato i segni dei morsi della gelosia. La seconda fu semplicemente Tulla Larsen, arrivò e spostò l’atmosfera. Era una amazzone fiera e distaccata, dalla bellezza incandescente, buttò fra loro i suoi due occhi blu e lo infilzò, sì, certo, non gli diede scampo e lo prese con quei due occhi così blu che nessun’altro blu, in tutto l’universo, poteva esserlo di più. Edvard, fatalmente stregato, si perse. Purtroppo il loro fu un legame tossico, totalizzante e distruttivo. Una notte dannata quell’amore gli presentò il conto, volle in pagamento la carne e il sangue. Edvard e Tulla, ottenebrati dagli eccessi di ore annegate nell’alcol litigarono e inziarono una discussione a tre, dove la terza incomoda era un’incauta rivoltella. La rabbia li trascinò lontano da loro stessi ed uno dei due premette il grilletto: uno sparo, un colpo e un proiettile trapassò un dito di Edvard. L’artista esasperato dalla nocività di quel rapporto, preda dell’ossesione e della dipendenza dopo quella notte chiuse con Tulla. L’etilismo, la sregolatezza e una esasperata tensione emotiva lo condussero sul ciglio del baratro e, nel 1909, all’ennesimo sentore di un imminente tracollo nervoso decise di ricoverarsi in una struttura che potesse aiutarlo a disintossicarsi e scacciare l’intrusione malsana delle sue ossessioni.
Durante il ricovero non smise tuttavia di sperimentare e la sua ricerca artistica si convogliò sulla fotografia. Stampò innumerevoli scatti dove sperimentò la distorsione dell’immagine, la sfumatura e l’intensità dell’espressione. Nonostante il piacere per questo nuovo mezzo e la grande abilità nel maneggiarlo non si lasciò sedurre dalla camera oscura.
Uscito dalla clinica volle tornare in patria e venne eletto Cavaliere dell’Ordine Reale dedicandosi con passione a progetti per la decorazione di edifici pubblici.
La sua esperienza di uomo lo condusse negli ultimi anni della sua vita ad una nuova visione del significato dell’esistenza e all’incontro con una nuova tavolozza di colori.
Invecchiò contrariamente ad ogni sua spettativa e seppe affronatare ogni suo demone rivolgendosi al futuro con vitalità e fiducia oltre ad un rinnovato senso dell’ universalità dell’esistere.
Ci sono vite che atterrano al mondo per splendere, arrivano già inamidate, spinte dal destino lungo una linea retta, distese da cima a fondo senza intervalli e poi ci sono vite soffocate, partorite nel dolore, dove la miseria è ordinaria e la disgrazia spessa. Qui non c’è nessun tracciato suggerito e nessun percorso favorito. La fortuna semplicemente non c’è e la conquista della meta si fa a mani nude, coi denti, col sangue, a colpi di reni finchè c’è respiro, finchè c’è coraggio. Lì non c’è nessuno a disegnare la partenza tanto meno a regalare una via. Quando lo sparo d’inizio di una vita scoppia davanti a una pedana rotta e lì, a piedi nudi e sulla terra rossa, ci si tiene in equilibrio incerto finchè si scatta e si lancia una corsa forsennata, con la pelle sotto i talloni che brucia e lo sguardo orientato oltre l’infinito, quando oltre ogni immaginazione si arriva alla fine e si infila uno dei due alluci oltre l’arrivo, quando il destino di uomo si compie nonostante tutto, lì c’è un artista.
Edvard Munch ha corso su questo pianeta imprimendo la sua impronta di uomo e di artista cercando per tutta la vita di raggiungere il nucleo più profondo del sentire umano e, alla fine, dopo aver dragato ogni sentimento anche il più distruttivo ha riconosciuto l’origine dell’uomo, la sua autentica verità, il suo sentire universale.

Leonardo dessezionava i cadaveri, io dissezionerò la mia anima per trovare cosa c’è di universale“.
Morì ma non è morto il 23 gennaio 1944 a Oslo.

Derma
Derma
Nasco a Milano, una manciata di lustri fa. Mi interessano le vite stonate, distorte, irregolari e il ritmo delle loro ballate. Osservo quando un passo di danza diventa un inciampo, quando un desiderio diventa un'ossessione, quando la volontà diventa un eterno vagare e in quel luogo oscuro, dove l'asse della mente si inclina e porta altrove scruto l'orizzonte. Non sono un medico, non sono una psichiatra, non sono una legale sono solo una collezionatrice d'ombre.
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