Il 28 giugno 1915, a Santa Lucia di Budoia in Friuli nacque una bambina di nome Caterina, detta Rina, Fort.
Ai piedi del Monte Cavallo, nel piccolo centro montano dove risiedeva, l’odore di felci e il muschio rivestivano le pareti delle case e annunciavano il passaggio delle stagioni. Il padre di Caterina, uomo di montagna, appena sveglio aveva l’abitudine di alzarsi e aprire le finestre per misurare il giorno che si apriva. Un mattino simile a tanti si alzò dal letto, aprì i battenti, e riempì i polmoni del profumo dell’alba e decise di andar per boschi in cerca di funghi. Rina lo seguì.
Padre e figlia si addentrarono nella vegetazione finchè raggiunsero un passaggio incerto, reso ancora più infido dalle piogge dei giorni precedenti. Il sig. Fort chiese alla figlia di arretrare e mantenere una certa distanza per consentirgli di verificare la solidità del terreno. Nonostante la circospezione e i tentativi di sondare il pavimento di roccia all’improvviso il suolo cedette sotto i suoi passi e lui scivolò. Con prontezza straordinaria riuscì ad aggrapparsi al bordo del precipizio prima di piombarci dentro ma in tempo per ascoltare lo schianto delle pietre sotto di lui. Un’ eco tremenda e lugubre aveva riempito il silenzio della valle. Il sig. Fort agganciato alla montagna per le dita, come rampini, subiva il richiamo alla terra da una forza mai avvertita prima, ostile e inevitabile. Con cautela spostava le gambe, attento a non perdere l’equilibrio in cerca di un appiglio per alleggerire la presa ma dovette abbandonare il tentativo perchè ad ogni tentativo percepiva sempre più reale l’inconsistenza dell’aria attorno a lui.
Rina corse in avanti terrorizzata, si buttò pancia a terra e afferrò i polsi del padre, tentando disperatamente di trattenerlo, di resistere insieme a lui, di dargli tutta la sua forza di bambina. In quel preciso istante una stilettata di dolore le attraversò il costato ma lei non gli diede peso, non avrebbe abbandonato quel posto a nessuna condizione. Sussurrava con la voce spezzata dal pianto “ti salvo io papà” mentre lui sempre più stanco sentiva le dita congestionate dalla sforzo, formicolanti, e la presa farsi sempre più debole. Il sig. Fort gridava a Rina di andare a cercare soccorsi, di correre in paese che lui sarebbe rimasto lì ad aspettarla, resistendo, finchè non fosse tornata. Lui era suo padre e lei la sua bambina, lui doveva proteggerla fino all’ultimo istante di vita e doveva allontanarla da quel posto. Lo sapevano entrambi che si stavano scambiando promesse bugiarde ma erano le uniche parole che potevano regalarsi. Il sig. Fort sfinito non resse più e Rina lo sentì scivolare via, prima si sciolse la presa sui polsi, poi sui i palmi, poi le dita finchè si trovò a stringere solo l’aria gelida del bosco. Il crepaccio inghiottì l’uomo e l’anima di Caterina per sempre.
Rina crebbe, divenne una bella ragazza dai capelli bruni e uno sguardo magnetico, nelle iridi castane ribolliva la forza selvaggia di un felino. La giovane appena maggiorenne si innamorò e decise di sposare un giovanotto che conosceva dall’infanzia, con cui aveva diviso persino i banchi di scuola. A pochi giorni dal matrimonio la tubercolosi glielo strappò dalle braccia.
Rina sentì nuovamente la stilettata che le aveva straziato l’infanzia e si ripromise che niente al mondo le avrebbe più strappato qualcosa di caro, nemmeno la morte.
Pochi mesi dopo conobbe un ragazzo, compaesano, rientrato dalla guerra stimato e benvoluto da tutti. Accettò il corteggiamento e convolarono a nozze, Rina pensò di poter finalmente sigillare il forziere della sfortuna e dimenticare il suo passato ma non fece i conti con l’imprevisto. Durante la prima notte di nozze il suo novello sposo la legò al letto e la percosse con brutalità inumana. Emerse che l’uomo, reduce dalla guerra, era affetto da una malattia che gli aveva danneggiato irreversibilmente l’equilibrio mentale. Caterina non era donna che potesse sottostare alla violenza di nessuno e lo fece ricoverare in un istituto psichiatrico dove morì poco dopo.
Decisa a riprendersi la vita che le spettava, poco più che ventenne, Rina si trasferì a Milano dopo aver trovato un impiego come collaboratrice domestica.
Attese la partenza per mesi e quando il treno si fermò alla stazione Centrale di Milano un sussulto di felicità la scosse tutta. Stringeva in mano una borsa, né grande né piccola ma decisamente leggera. La valigia era molto più voluminosa di quanto non servisse: all’interno poche cose, un pettine d’osso, un cambio di intimo in cotone, un paio di calze, una canottiera, qualche forcina, una camicia da notte e tanta, tanta carta di giornale appallottolata.
Rina pensava che una signora dovesse viaggiare con una valigia grande, voluminosa, ingombrante. Nella sua testa chi viaggiava con un bagaglio minimo era una donna senza storia, senza beni, senza valore. Il debutto nella sua nuova vita invece doveva partire sotto i migliori auspici e così posò sulla banchina della stanzione la più grande ed anche la più leggera valigia mai trasporata.
Scoppiò la guerra, perse il lavoro e si arrangiò con la borsa nera.
Nel 1945 conobbe Giuseppe Ricciardi, un negoziante che aveva bottega in via Tenca, a Porta Venezia e Rina iniziò a lavorare con lui come commessa per poi stringere il rapporto e diventarne l’amante.
Il Ricciardi infatti aveva moglie e tre bambini in Sicilia.
La consorte venuta a conoscenza della relazione extraconiugale del marito decise di trasferirsi a Milano e di riprendersi ciò che era suo. Il Ricciardi sollecitato della famiglia d’origine a ricomporre il matrimonio chiuse, senza nessun ripensamento, il rapporto con Rina, dimenticandosi degli anni in cui l’aveva presentata come la sua compagna ad amici e clienti. Una mattina all’arrivo di Rina in negozio le fece trovare una busta con la liquidazione sul bancone, le intimò di sparire, la spinse fuori dalla bottega, chiuse la porta e le girò le spalle per sempre.
Rina vagò per la città come una bestia feroce, umiliata nei sentimenti. Raggiunse in serata l’abitazione dove si era stabilita la famiglia del suo ex compagno, sgattaiolò per le scale e si presentò all’uscio di casa scampanellando. La sua rivale aprì la porta e le offrì l’accoglienza che si deve agli ospiti. Rina non resse alla vista di quel piccolo focolare, ravvivato dalla gioia dei bambini, l’immagine dovette sembrarle un affronto insopportabile.
Con una violenza inaudita sferrò colpi mortali alla donna ed ai suoi bambini per poi sparire nella nebbia di una notte qualunque di Milano.
La Fort fu condannata all’ergastolo Il 9 aprile 1952, scontò ventitrè anni di carcere e il 12 settembre 1975 il Presidente della Repubblica Giovanni Leone le concesse la grazia.
Chiese ed ottenne il perdono della famiglia della vittima
Nel 1975 Caterina riprese il cognome Benedet dell’ex marito Giuseppe, e visse una vita riservata a Firenze, fino alla sua morte avvenuta il 2 marzo 1988.
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